Un Leone d'Oro profetico
Nel 1963, alla XXIV Mostra del Cinema di Venezia, "Le mani sulla città" di Francesco Rosi conquista il Leone d'Oro in una competizione di altissimo livello, battendo capolavori come "Muriel" di Alain Resnais e "Il servo" di Joseph Losey. La vittoria non fu casuale: il film di Rosi rappresentava l'urgenza di un cinema che sapeva guardare in faccia la realtà del paese, anticipando di decenni problematiche che sarebbero esplose con virulenza negli anni successivi.
Gli anni sessanta e la speculazione edilizia
L'Italia degli anni Sessanta vive il miracolo economico, ma dietro la facciata del progresso si nascondono meccanismi perversi che cambieranno per sempre il volto delle città. Napoli, Roma, Palermo: ovunque gruppi di "palazzinari" trasformano violentemente la fisionomia urbana con la scusa del progresso sociale, mentre in realtà si aggirano "come condor intorno a interessi essenzialmente finanziari in mezzo a una selva di rapporti di corruzione con istituzioni consenzienti a fini elettorali".
Il film di Rosi si inserisce in questo scenario con una lucidità chirurgica, raccontando attraverso il fittizio Edoardo Nottola (Rod Steiger) - imprenditore edilizio e consigliere comunale monarchico - i meccanismi che regolavano (e regolano tuttora) il rapporto perverso tra pubblico e privato nel settore edilizio italiano.
Dal neorealismo al cinema-inchiesta
Rosi eredita dal neorealismo l'urgenza narrativa e la percezione del cinema come "strumento necessario di racconti che altri non fanno", ma evolve verso una forma più matura e complessa. Il regista napoletano, formatosi alla scuola di Visconti, sviluppa un linguaggio cinematografico rivoluzionario che fonde documentario e fiction, immagini dal vero e di repertorio, attori professionisti e non professionisti.
La scena iniziale del film: il crollo di un palazzo in ristrutturazione
Il dramma della casa negli anni sessanta
Il crollo della palazzina di Vico Sant'Andrea che apre il film non è solo un espediente narrativo, ma il simbolo di una questione abitativa drammatica che attanagliava l'Italia del boom. Le "catapecchie" dei quartieri popolari, prive di servizi essenziali come acqua ed elettricità, rappresentavano una realtà diffusa nel Mezzogiorno, mentre al Nord l'industrializzazione accelerata creava nuove emergenze abitative per i flussi migratori interni.
Rosi mostra con precisione documentaria questa realtà: i bambini ricoverati in ospedale dopo il crollo, le famiglie costrette allo sfratto, il degrado delle abitazioni popolari. Ma il regista va oltre la semplice denuncia, mostrando anche le contraddizioni di un sistema che, pur attraverso la corruzione e il malaffare, produce comunque un miglioramento delle condizioni abitative.
L'ambiguità morale di Nottola
La genialità di Rosi sta nell'aver creato in Nottola un personaggio moralmente ambiguo ma non privo di una sua logica. Quando il palazzinaro accompagna il consigliere comunista De Vita (interpretato dal vero sindacalista Carlo Fermariello) a visitare le sue costruzioni, le sue argomentazioni sono ineccepibili: "È meglio che stiano in quelle catapecchie o in palazzi come questo?". Le abitazioni moderne che mostra hanno "un cesso e un lavandino nuovo, i cavi dell'elettricità e tutto quanto serve per progredire".
[Il Il palazzinaro Nottola (Rod Steiger)
L'Eredità del film nell'Italia Post-1968
"Le mani sulla città" anticipa di almeno cinque anni quelle che diventeranno le rivendicazioni centrali dei movimenti extraparlamentari post-1968. La questione abitativa, che nel film emerge come conseguenza della speculazione edilizia, diverrà negli anni Settanta una delle battaglie principali dei gruppi della sinistra radicale.
Il diritto alla casa si trasformerà da problema sociale a bandiera politica: dalle occupazioni di case popolari alle lotte contro gli sfratti, dalla denuncia della speculazione edilizia alla rivendicazione di un intervento pubblico massiccio nel settore abitativo. Movimenti come Lotta Continua e Potere Operaio - gli stessi che formeranno poi i poi i militanti di Prima Linea - faranno della questione abitativa uno dei loro cavalli di battaglia.
Il Passaggio dal riformismo alla radicalizzazione
mostra come il sistema democratico-parlamentare dell'epoca fosse incapace di affrontare strutturalmente il problema. Il consigliere comunista De Vita, pur avendo ragione nelle sue denunce, risulta inefficace di fronte ai meccanismi di potere consolidati. Questa frustrazione del riformismo parlamentare contribuirà, negli anni successivi, alla radicalizzazione di parte della sinistra italiana.
Un'estetica rivoluzionaria
Rosi sviluppa un linguaggio cinematografico che sarà d'esempio per tutto il cinema civile italiano. La sua capacità di rendere "praticamente indistinguibili i momenti di reenactment da quelli di vera fiction" crea un realismo straniante che costringe lo spettatore a interrogarsi sulla natura stessa delle immagini che sta vedendo.
La protesta del quartiere dopo l'ordine di sgombero
La sequenza della protesta del quartiere dopo l'ordinanza di sfollamento rappresenta il punto più alto di questa commistione: "volti non professionisti che gridano e protestano a incorniciare il passaggio nella folla del severo commissario di polizia", con voci di studio in fase di doppiaggio per "aiutare i volti della gente ad alzare un vero grido contro l'indifferenza delle istituzioni".
La fotografia di Gianni Di Venanzo
Il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo contribuisce in modo decisivo alla riuscita del film, utilizzando la luce per sottolineare i significati politici delle scene. Quando Nottola mostra a De Vita le sue costruzioni, il gioco di luci e ombre sottolinea il contrasto tra il progresso (rappresentato dalle nuove abitazioni) e l'arretratezza (le vecchie case sullo sfondo), costringendo lo spettatore a confrontarsi con l'ambiguità morale della situazione
Il capo del partito di opposizione De Vita., interpretato da Carlo Firmariello. Sindacalista napoletano,
La tragedia collettiva
Sotto la veste del film-inchiesta, "Le mani sulla città" allestisce una vera e propria tragedia collettiva dove tutti i personaggi hanno le proprie ragioni. Rosi evita il moralismo facile e la retorica manichea: "i buoni non vincono sui cattivi e i cattivi ottengono quel che vogliono", ma emerge la complessità di un sistema dove anche le vittime sono spesso complici.
La famosa sequenza in cui i consiglieri alzano le braccia per mostrare che "le loro mani sono pulite" - termine che ricorrerà vent'anni dopo per etichettare Mani Pulite - diventa il simbolo di un'ipocrisia sistemica che attraversa tutti i livelli della società italiana.
L'attualità di un capolavoro
A oltre sessant'anni dalla sua uscita, "Le mani sulla città" mantiene una scottante attualità. I meccanismi di potere descritti da Rosi - il conflitto di interessi, il trasformismo politico, la corruzione legalizzata - continuano a caratterizzare il rapporto tra politica ed economia in Italia.
Framcesco Rosi riceve il leone d'oro alla 24* Mostra del cinema di Venezia (1963)
Il film rappresenta un momento di maturità del cinema italiano, capace di affrontare i nodi strutturali del paese senza cadere nella denuncia sterile o nella propaganda. È un cinema della complessità, che rifiuta le soluzioni facili e costringe lo spettatore a confrontarsi con le contraddizioni della propria società.
Eredità e influenze
"Le mani sulla città" inaugura una stagione del cinema italiano che vedrà fiorire opere come "Il caso Mattei" dello stesso Rosi, "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" di Elio Petri, e "Cadaveri eccellenti" sempre di Rosi. È l'inizio di quel "cinema civile" che accompagnerà la società italiana attraverso gli anni di piombo, offrendo chiavi di lettura e strumenti di comprensione per fenomeni complessi e spesso indicibili.
Il merito maggiore del film resta quello di aver trasformato una vicenda locale in una riflessione universale sui meccanismi del potere, anticipando di anni problematiche che sarebbero esplose con la contestazione del '68 e che ancora oggi, purtroppo, mantengono la loro drammatica attualità